La testimonianza della nostra responsabile per la comunicazione istituzionale, Chiara Troiano, dopo la missione in Ucraina.

 

In Ucraina, camminando per strada, si può osservare la vita scorrere lentamente. Le persone, ormai abituate ad un contesto di conflitto, hanno sviluppato un altissimo livello di resilienza. Le giornate trascorrono in un’apparente normalità. Si esce, si creano situazioni di incontro, di collettività, di svago. Si creano meccanismi di “difesa” per vivere la tranquillità, in un contesto che tranquillo non è. Si sta insieme per cercare di gestire lo stress, non farsi prendere dalla paura o farsi sopraffare dallo sconforto. Si vive senza mostrare troppi pensieri, fino a che a un certo punto, da un momento all’altro nulla è più normale. Suona l’allarme, i telefoni ti segnalano che qualcosa non va. E allora, quando non c’è abbastanza tempo, ci si mette in corridoio, tra due muri solidi, lontano dalle finestre, che con l’onda d’urto potrebbero esplodere, altrimenti si va nel rifugio. Ma in ogni caso, non ci si ferma, non ci si fa assorbire dai pensieri, si chiacchiera, si lavora. Fino a che a un certo punto il telefono ti dice che va tutto bene e ti augura “che la forza sia con te”.

A Ivanivka, nell’Oblast di Kharkiv, come in tante altre località vicine al fronte, molte delle case sono state distrutte. Le persone hanno lasciato questi luoghi per spostarsi in aree più sicure, all’interno o all’esterno del Paese. Fino a settembre 2022, queste zone erano occupate e sono ora chiamate “newly accessible areas”, ovvero aree diventate nuovamente accessibili dopo lunghi periodi di occupazione. Ci sono scuole qui, ma non sono utilizzabili, poichè non sono dotate di rifugi. Per questo motivo, i bambini e le bambine frequentano le lezioni online da molto tempo, alcuni addirittura dall’inizio della pandemia di Covid-19. Le persone che Intersos assiste qui sono principalmente donne. Gli uomini rimasti sono pochi, alcuni di loro si trovano al fronte al momento, altri si sono spostati in località più grandi per trovare lavoro e tornano a casa solo poche volte l’anno per visitare le loro famiglie. Quello che succede agli uomini più giovani è terribile. Durante i loro spostamenti possono essere fermati e reclutati per andare al fronte, spesso senza nemmeno avere il tempo di reagire, salutare, elaborare. Questo causa enorme tensione nelle persone, le famiglie vengono separate, gli uomini hanno paura di muoversi a causa della “conscription”. Le donne rimangono spesso sole con i propri figli.

È difficile trovare lavoro in queste località, le persone hanno bisogno di assistenza economica, anche se spesso in questi posti non ci sono negozi dove poter acquistare i beni di cui hanno bisogno. Bisogna spostarsi di diversi chilometri per raggiungere luoghi dove ci sono i negozi. Non ci sono medici in questi piccoli paesi e l’accesso ai servizi di base è estremamente complesso. I principali bisogni che le persone hanno, qui, sono cibo e vestiti invernali per ripararsi dalle bassissime temperature e dalla neve.

Per strada non c’è nessuno. Le strade dei villaggi sono vuote. Le aree in cui lavoriamo sono chiamate “rural and remote areas” e sono veramente isolate. Il silenzio che si sente qui è tanto assordante quanto il rumore delle esplosioni.

In macchina, Daniil, ci racconta che il ponte su cui siamo passati era stato fatto esplodere dalle forze ucraine per evitare che venisse utilizzato dalle forze russe a scopo logistico, quando le zone che abbiamo visitato oggi erano ancora occupate. Ha funzionato. Ma sono stati necessari due anni di lavori per ricostruirlo. Le tattiche di guerra, i tipi di armi utilizzate, sono un argomento di discussione ricorrente qui. Ma c’è un tema, a cui spesso nelle crisi non si pensa, oppure viene percepito come secondario: la salute mentale.

Qui ogni giorno è imprevedibile, non si possono fare piani per il futuro perchè la guerra, oltre che uccidere le persone, uccide anche ogni possibile speranza di futuro. Tutto ciò che sta intorno a noi è lento e calmo da un lato, ma veloce e frenetico dall’altro. Si aspetta che passi, ma bisogna essere veloci a reagire. Si approcciano le questioni con fermezza, ma allo stesso tempo si è consapevoli che questa è un’emergenza. Ci sono moltissime contraddizioni qui. Ma la costante, nelle aree non immediatamente confinanti con il fronte, è il logoramento delle persone che questa guerra la vivono ormai da quasi tre anni, 1051 giorni.

I problemi qui sono diversi da ogni altro Paese in cui siamo operativi. Si vive sempre con la tensione che da un momento all’altro si possa passare da quell’apparente normalità ad una situazione spaventosa e imprevedibile. E’ la mancanza di un futuro pianificabile il dolore costante da affrontare quotidianamente, con la consapevolezza che la soluzione vera e propria sarebbe solo una: la fine definitiva del conflitto.