Divenuto indipendente dal Sudan nel 2011, dopo un conflitto durato oltre 40 anni, il Sud Sudan è lo stato più giovane al mondo e procede sulla strada dell’edificazione delle istituzioni democratiche, nonostante le questioni regionali non siano ancora risolte. Anche la situazione politica interna è molto instabile, diversi gruppi armati continuano a lottare per accaparrarsi terre e risorse, a scapito della popolazione civile.

“Non avevamo niente da mangiare così mio marito si è unito ad un gruppo di guerrieri che razziavano i villaggi vicini per rubare il bestiame. Era una attività molto pericolosa; in certe situazioni o uccidi o ti uccidono” racconta Maze, 22 anni e 3 figli, che vive a Pibor, nello stato del Jonglei, una della aree più povere e popolose del paese.
Ed è a Pibor e Gumuruk, sempre nello Jonglei, che INTERSOS, in collaborazione con UNICEF, sviluppa un progetto che coinvolge 18 gruppi di donne in un percorso che unisce la formazione per sviluppare piccole attività di credito alla sensibilizzazione nei confronti delle violenza di genere.
“Fare parte del gruppo ha salvato la vita a mio marito. Ci hanno insegnato come raccogliere e seccare le foglie di tè per venderle al mercato. Ho cominciato a guadagnare qualcosa per sostenere la famiglia e dopo poco mio marito si è reso conto che, se mi avesse aiutato, sarei riuscita a produrre e a vendere di più. E così ho partecipato anche alle lezioni per imparare a fare il pane. La mattina andiamo insieme al mercato e finalmente lui non si unisce più agli altri per sconfinare nei villaggi vicini alla ricerca di bestiame” conclude Maze.
Il Sud Sudan è uno dei paesi al mondo dove essere donne è più difficile perché espone ad una serie di violenze e discriminazioni continue” dice Salvo Maraventano, Vice Direttore Regionale Africa Orientale di INTERSOS. “Un recente rapporto di IRC (International Rescue Commettee) sostiene che circa il 65% delle donne nel paese ha subito violenza, fisica o psicologica. Il 52% delle ragazze è costretto a sposarsi prima della maggiore età, il 9% addirittura prima dei 15 anni”.
Veronica, una delle 168 donne coinvolte nel progetto, ha 32 anni ed è stata abbandonata dal marito, insieme ai 4 figli. Da allora ha dovuto provvedere a se stessa e ai bambini da sola.
“All’inizio non riuscivo neanche a dare da mangiare ai miei figli. Erano sempre affamati. E non potevo neanche pagare le cure mediche o mandarli a scuola. Ho dovuto affidare i due più grandi da mia sorella in Uganda”.
Veronica si è unita al progetto di INTERSOS e UNICEF nel giugno del 2018, imparando le tecniche del cucito e della decorazione. Adesso è in grado di realizzare coperte ornate di perline e le vende al mercato.
“Oltre al fatto che i miei figli non vanno più a dormire affamati e posso permettermi di pagare le cure mediche, quando ne hanno bisogno, e mandarli a scuola, la cosa più bella è stata trovare il sostegno di tante donne” continua Veronica. “Prima ero io che avevo bisogno di conforto e guida, adesso invece aiuto le altre quando si sentono più sole e scoraggiate. Insieme siamo riuscite anche a creare un piccolo fondo con il quale prestiamo i soldi alle donne che si uniscono al gruppo ma non hanno le risorse per cominciare un piccolo commercio”.
A volte è difficile raggiungere le donne più vulnerabili e integrarle nei gruppi, perché non hanno tempo per dedicarsi a una attività che le porti fuori casa o il marito e la famiglia sono contrari che si allontanino per qualche ora durante la giornata. Ma la prospettiva di incrementare le entrate della famiglia è una chiave che, quasi sempre, riesce a superare le diffidenze.
“Quando le donne sono nel gruppo, all’inizio si concentrano solo ed esclusivamente sull’apprendimento. Una volta raggiunta una certa conoscenza e fiducia, cominciano a parlare fra di loro e a confidarsi. È in quel momento che il gruppo nasce davvero e diventa possibile capire chi ha bisogno di ulteriore aiuto e affrontare i casi più gravi singolarmente. È un percorso lungo e difficile ma la maggiore autonomia che le partecipanti riescono a raggiungere ha quasi sempre conseguenze molto positive, anche nei confronti del loro ruolo all’interno della famiglia e nel villaggio. La speranza è che i figli e le figlie possano vivere in un contesto, anche culturalmente, meno violento nei confronti delle donne” conclude Salvo Maraventano.