Plurale. Quando si parla di Sud Sudan nulla può essere declinato al singolare. Per capire: quando si parla di crisi umanitarie – meglio: quando si denuncia il disinteresse occidentale verso tante crisi umanitarie – si ricorre spesso all’espressione “emergenza dimenticata”. Qui avrebbe poco senso: le emergenze sono due, tre, dieci. Tante. Tutte insieme.
Articolo di Stefano Bocconetti
Tante emergenze. Tutte nel paese più giovane del mondo, che ha solo nove anni di vita autonoma. E anche se può sembrare molto riduttivo – per dirla tutta: anche se può sembrare molto simile al linguaggio dei media mainstream ai quali basta una telefonata per “raccontare” un paese complicato -; anche se può sembrare banale, si diceva, la sensazione di quanto enorme sia il lavoro delle organizzazioni umanitarie, la si percepisce già semplicemente parlando su WhatsApp. Parlando con Stefano Antichi, il 42enne espertissimo – è stato a lungo in Iraq e Yemen, solo per citare le ultime due missioni – capo missione di INTERSOS in Sud Sudan. Un colloquio che si interrompe spesso. Non per i soliti problemi di connessione – facilmente immaginabili e ad essere sinceri neanche così drammatici – ma perché Stefano Antichi deve coprire, contemporaneamente, tanti “fronti”. E deve interrompere per un po’ il colloquio per rispondere ad un bisogno, per trovare una soluzione, per tamponare un problema. Tante emergenze, dunque.
Una di queste, la si percepisce in sottofondo mentre si parla: è la pioggia. Le piogge. Torrenziali. Il Nilo Bianco che attraversa la capitale ha già invaso le pochissime strade asfaltate di Juba. Si cammina nel fango. Che arriva alla cintola. Qui la situazione è durissima ma altrove è disastrosa. E il pensiero va subito ad Akobo, dove c’è la base in Sud Sudan più importante di INTERSOS. A nord est della capitale, nello stato del Jonglei, sulle rive dell’omonimo fiume Akobo, da cui prende il nome la contea. Lì, al confine con l’Etiopia, la natura sembra accanirsi: insieme alla valanga di acqua dal cielo, altra acqua scende dai monti dell’Etiopia. E, più o meno, si porta via tutto quel che trova. Certo non trova resistenza nelle case di fango e argilla che costituiscono il grosso dell’insediamento. Con l’aggiunta che gli interventi di aiuto vanno coordinati dalla capitale. “In Sud Sudan non ci sono strade, così come siamo abituati a pensarle. Ce ne sono pochissime e quasi sempre impraticabili”. Così ci si sposta in aereo. Anche per fare 300 chilometri. Solo che gli aerei con le piogge torrenziali restano a terra. Non si parte. “O si mette in conto di partire ma poi esser costretti a fermarsi”. E a quel punto? “A quel punto si dorme nelle case dei contadini. Che ti ospitano volentieri”.
“Sì – continua Stefano Antichi – perché c’è una cosa che mi preme sottolineare: è che qui noi di INTERSOS, così come le altre organizzazioni umanitarie, siamo visti, percepiti come alleati. Amici. Te lo dico anche tenendo conto delle mie esperienze passate. In Sud Sudan mai un problema, sempre massima disponibilità reciproca. Gente stupenda che ci considera dalla sua parte”. Qui, insomma, l’intervento del “bianco solidale” non è visto come la lunga mano dei vecchi e nuovi colonialismi. “Affermazione che non ha molto senso, tanto meno qui e tanto meno per noi – continua Stefano Antichi – proprio perché la scelta di INTERSOS è sempre stata chiarissima: abbiamo puntato soprattutto a coinvolgere le comunità locali. Al punto che ora abbiamo una serie di figure, di veri e propri “quadri” sud sudanesi che sono in grado di far fronte perfettamente alle emergenze”.
Raccontata così può sembrare facile. Ma è un risultato titanico nel paese più giovane del mondo che è anche però uno dei più complicati. Un’area vastissima, seicentoventimila chilometri quadrati, che è stata sempre discriminata dal governo di Khartoum. Discriminata dal Sudan. Fino alla guerriglia indipendentista, che s’è trasformata poi in guerra aperta, conclusa all’inizio di questo secolo. Con un accordo che ha permesso il varo del referendum sull’autonomia. Indipendenza cominciata ufficialmente il 9 luglio del 2011.
Indipendenza che ha cambiato poco, però, le condizioni di un popolo già stremato dalla guerra, che aveva fatto due milioni di morti e 300 mila sfollati. Perché già nel dicembre del 2013, le cronache raccontano dei massacri, degli orrendi massacri fra le fazioni che sostenevano il presidente, di etnia Dinka, ed il suo ex vice, di etnia Nuer. Guerra civile proseguita per anni, con impegni di pace firmati, poi disattesi, poi di nuovo firmati. Con uno spiraglio che si è aperto proprio in questi mesi, con l’ennesimo accordo, sostenuto dalla comunità africana. E che appare – appare – forse un pochino più solido degli altri. Cosa cambierà per i duecentomila sfollati interni lo si saprà nei prossimi mesi, ma intanto almeno il clima sembra migliorato. Anche se in Sud Sudan gli equilibri sono delicatissimi, con un intreccio di poteri intricato, che riguarda pure i piccoli potentati locali. In un paese che conta sessanta gruppi etnici, più di 80 lingue e dialetti. I Dinka, i Nuer, gli Azande, i Bari, gli Shilluk, gli Anyuak e così via. “Ma noi lavoriamo con tutti, un piccolo miracolo. Il nostro personale è davvero interetnico”.
Le divisioni tra comunità diverse però esistono. E questo rende tutto più difficile. Sempre più difficile. “Te lo dico sperando che qualcuno ci legga e ci ascolti – riprende Stefano Antichi – Si sono ridotti gli aiuti, i fondi destinati al Sud Sudan. In un paese, lo aggiungo tranquillamente e senza forzature, che per lo più vive quasi solo grazie al sostegno internazionale”. L’agricoltura è povera (“del resto non potrebbe essere altrimenti con terreni invasi dal fango per tre, quattro metri, per sei mesi all’anno”), la pesca ancora meno. Con servizi che esistono più o meno solo nella capitale, con infrastrutture – a cominciare da quelle basilari, le strade – tutte da costruire. Certo c’è il petrolio, c’è tanto petrolio che per essere distribuito ha bisogno però dei porti sudanesi, dove finisce l’oleodotto. E i ricavi del petrolio – per ragioni che tutti conoscono o possono intuire – non hanno ricadute sul tenore di vita delle persone, sul reddito medio. Con un’inflazione che ad aprile era del 37 per cento. Servirebbero soldi, aiuti, insomma. Che non ci sono. Che sono stati ridotti.
Questo moltiplica le emergenze. Anche se – e qui Stefano Antichi si rivela lontanissimo dalle stantìe narrazioni retoriche – va anche detto che qualche rara volta capita che un’emergenza ne attenui un’altra. Che vuol dire? “Pensa al COVID-19 – risponde – Tutti gli osservatori erano convinti che qui sarebbe stato un dramma, con un sistema sanitario povero. Invece le autorità hanno subito imposto delle restrizioni. Nessun contatto esterno. Così i casi di infezione sono stati tutto sommato meno del prevedibile. Che comunque non è stato vissuto del tutto drammaticamente dalle persone, perché qui la gente, da aprile a dicembre, quando piove – e piove in quelle dimensioni – semplicemente non può più muoversi. Resta chiusa, confinata nel proprio spazio”. Ed ancora. “Ti dico di più. Il dramma delle piogge, le più abbondanti degli ultimi dieci anni, la catastrofe della gente costretta a lasciare le case, costringe per forza di cose anche i gruppi armati a ridurre le proprie attività. Quantomeno ad attenuarle”.
Chi non ha diminuito la sua attività ovviamente è stata INTERSOS. Lì ad Akobo, dove si vanno a fare le visite alle persone assistite in barca, che ripercorre – prova a ripercorrere – il fiume, raggiungendo i tanti piccoli insediamenti sparsi sulle rive. Dove ci si attrezza per ricostruire quel che l’acqua ha distrutto. E sempre lì ad Akobo, dove INTERSOS è impegnata da tempo nel difficile lavoro per sostenere le donne sopravvissute alla violenza e discriminazioni. Le si sostengono economicamente, socialmente. E culturalmente, con un certosino lavoro perché le loro comunità rifiutino lo stigma verso chi ha subito violenza. E ancora: le attività in tante altre parti del Sud Sudan, a cominciare dalla capitale, e i tanti progetti per garantire ai bambini il diritto allo studio. Che in epoca di pandemia significa anche cose molto semplici, come provare a portare l’acqua negli istituti, in modo che i piccoli possano lavarsi le mani. In un paese dove, fino all’ultima statistica, il 70 per cento dei bambini non poteva continuare l’istruzione. In un paese, ancora, dove la mortalità infantile era – all’imperfetto, anche qui citando le ultime statistiche disponibili – quarantanove volte superiore a quella europea. Per mille motivi. Che rappresentano altrettante emergenze. Ed anche – perché non dirlo? – altrettanti terreni di impegno per INTERSOS.
Stanchezza? “No, ti rispondo di no. Se ti attrezzi con molta pazienza e doti diplomatiche, questo è un paese meraviglioso. Bellissimo. Con una cultura antichissima. Con paesaggi appassionanti”. Anche lì ad Akobo, che non è segnata in nessuna mappa. “Bellissimo anche lì – conclude Stefano – Quando dal nostro tukul, costruito esattamente come le altre casette del villaggio, guardi il fiume. Sull’altra sponda c’è l’Etiopia”. È il confine, che giuridicamente non sarebbe attraversabile. L’hanno fatto in decine di migliaia però scappando dalle guerre. È il confine, anche se nessuno lo vive come tale. Questo Stefano Antichi non lo dice ma anche il fiume di Akobo racconta l’assurdità di limiti e confini. Tanto più quelli tracciati a tavolino. Ma questo è un altro discorso. Che spetta alla politica, non alle organizzazioni umanitarie.
[gravityform id=”13″ title=”true” description=”true”]














