L’ultimo paese africano ad aver dichiarato la presenza di casi positivi da COVID-19 è stato il Sud Sudan. Nato dall’indipendenza dal Sudan nel luglio del 2011, detiene da anni una posizione sofferta in quella che è la classifica dei paesi più poveri al mondo, con 7 milioni di persone che hanno ancora bisogno di assistenza umanitaria a causa degli effetti cumulativi risultato di anni di conflitti, vulnerabilità croniche e servizi essenziali fragili o, peggio ancora, inesistenti. 

 

 

In Sud Sudan, donne e bambini continuano ad essere i più colpiti dalla fatica della sopravvivenza: ogni 100.000 donne che partoriscono, 800 muoiono durante il parto, e un bambino su dieci non arriva a compiere il suo quinto compleanno.

La fame è una minaccia costante e radicata da così troppo tempo da diventare sedimentata in tutto il paese. Una condizione che negli anni ha costretto quasi 4 milioni di persone a fuggire dalle proprie case, alla ricerca di un posto migliore. Sono sfollati interni e rifugiati che, con una minaccia come quella della pandemia, rischiano di ammalarsi e di contagiarsi in tempi e modalità così rapide e incontrollabili da far temere il peggio per tutta la popolazione. Tra i contagi registrati nel paese, alcuni sono avvenuti proprio all’interno dei centri di protezione di Juba e Malakal, che ospitano rispettivamente 30.000 e 110.000 sfollati interni.

In questi giorni il Sud Sudan è tornato a ricoprire i titoli delle testate giornalistiche internazionali, si parla di politica e società, di patti e di pace firmata. È stato siglato il nuovo accordo tra il presidente Salva Kiir Mayardit e il suo vice Riek Machar Teny, già capo del movimento Sudan People’s Liberation Army-In Opposition (SPLA-IO). Il presidente ha pubblicato la lista dei governatori, che ovviamente non ha messo tutti d’accordo, soprattutto nello Stato del Jonglei, unico Stato affidato al partito d’opposizione al governo e teatro della maggior parte degli episodi di violenza tra le diverse comunità.

“In Jonglei – precisa Stefano Antichi, Capo Missione INTERSOS Sud Sudan – INTERSOS ha una forte presenza, caratterizzata da interventi umanitari mirati di protezione dei fasce più a rischio”. 

La diffusione del COVID-19 avviene in uno scenario contorto, dove gli scontri tra le diverse comunità (Murle, Dinka e Nuer) continuano a rendere insicuro e instabile il territorio”, racconta Stefano, “Il paese sta affrontando la duplice minaccia del COVID-19 e di un aumento della violenza che rischia di far fallire sia i tentativi di riconciliazione nel fragile processo di pace, che le misure precauzionali adottate dal governo per contenere la diffusione del virus. Queste ultime però possono diventare esse stesse la causa di effetti collaterali legati alla sussistenza della popolazione. Gran parte delle famiglie, infatti, vive alla giornata, con lavori saltuari e procurandosi il cibo nell’incertezza quotidiana. Limitando la possibilità di movimento, diviene difficile anche riuscire a mangiare. Inoltre, siamo nella stagione delle piogge e le alluvioni stanno rendendo ancora più difficile la situazione del tribolato paese africano”.

Ad oggi sono 1892 i casi confermati di COVID-19 e 34 i decessi, questo nonostante il governo abbia sin da subito avviato una buona campagna di sensibilizzazione sulla pericolosità dell’epidemia (memori anche della drammatica esperienza di epidemia Ebola). Quello che manca però, in un paese come il Sud Sudan, è un efficiente sistema sanitario capace di affrontare un emergenza pandemica.  C’è un numero molto limitato di ventilatori, di respiratori e pure di posti letto nell’unico centro di assistenza medica ‘attrezzato’ del paese, nella capitale Juba. Al momento i tamponi vengono effettuati solo nella capitale e questo rende incerto il reale numero di casi positivi presenti sul territorio.

Il nostro lavoro prosegue costantemente”, afferma Stefano, “siamo presenti in Sud Sudan dal 2006, abbiamo assistito le persone più vulnerabili negli anni peggiori del conflitto interno e non sarà il COVID-19 ad interrompere le nostre attività. Abbiamo riadattato tutte le nostre attività sul territorio, dando un forte segnale ai nostri beneficiari di presenza e disponibilità”.

Attraverso campagne di sensibilizzazione e informazione, INTERSOS cerca di rendere consapevoli del rischio della pandemia le persone che vivono nelle comunità locali nelle aree di Upper Nile, Unity, Jonglei, Western, Eastern Equatoria and Central Equatoria.

La limitazione agli spostamenti ha richiesto un adattamento dei progetti sul campo per non lasciare nulla in sospeso. Come i progetti dedicati al supporto psicosociale per chi ha subito traumi in passato o vive in condizioni di estrema fragilità. Continuiamo ad ascoltare quelle persone effettuando le attività casa per casa, porta a porta, non lasciando indietro nessuno”.

Il popolo sud sudanese sta affrontando il rischio della diffusione del COVID-19 con misurazione e distacco. Questo avviene quando si è abituati alla paura, al dover vivere perennemente in allerta, alle malattie, al contagio. “Questo è un popolo che conosce da sempre pericoli come la malaria, la febbre gialla, l’ebola. Chi ha perso un figlio a causa di altre malattie che affliggono il paese da anni, non si lascia spaventare dalla pandemia”, racconta Stefano.

La violenza che si consuma negli stati di Jonglei, Unity, Lakes, Warrap e Western Equatoria – in cui centinaia di civili sono stati uccisi, altrettante donne e bambini rapiti e oltre 60.000 persone sfollate – non può più essere ignorata mentre c’è una pandemia in circolo.

Anche le Nazioni Unite hanno lanciato un monito sulla situazione emergenziale, lo ha dichiarato lo stesso Rappresentante Speciale del Segretario Generale per le UN, David Shearer Briefing, durante il Consiglio di sicurezza sul Sud Sudan: “Sì, le persone moriranno a causa del virus, come in qualsiasi altra parte del mondo. Ma la vera minaccia per il popolo del Sud Sudan risiede nel crollo del già fragile sistema sanitario”, ha affermato. “Ciò potrebbe comportare la perdita di molte altre vite – una tragedia che può essere prevenuta.”

Prevenire una tragedia. Per il Sud Sudan il tempo è una dimensione essenziale e intervenire ora sulla messa in sicurezza delle persone e di un sistema sanitario instabile, può fare la differenza in termini di vite umane salvate.

 

[gravityform id=”13″ title=”true” description=”true”]