
In Sud Sudan, donne e bambini continuano ad essere i più colpiti dalla fatica della sopravvivenza: ogni 100.000 donne che partoriscono, 800 muoiono durante il parto, e un bambino su dieci non arriva a compiere il suo quinto compleanno.
La fame è una minaccia costante e radicata da così troppo tempo da diventare sedimentata in tutto il paese. Una condizione che negli anni ha costretto quasi 4 milioni di persone a fuggire dalle proprie case, alla ricerca di un posto migliore. Sono sfollati interni e rifugiati che, con una minaccia come quella della pandemia, rischiano di ammalarsi e di contagiarsi in tempi e modalità così rapide e incontrollabili da far temere il peggio per tutta la popolazione. Tra i contagi registrati nel paese, alcuni sono avvenuti proprio all’interno dei centri di protezione di Juba e Malakal, che ospitano rispettivamente 30.000 e 110.000 sfollati interni.
In questi giorni il Sud Sudan è tornato a ricoprire i titoli delle testate giornalistiche internazionali, si parla di politica e società, di patti e di pace firmata. È stato siglato il nuovo accordo tra il presidente Salva Kiir Mayardit e il suo vice Riek Machar Teny, già capo del movimento Sudan People’s Liberation Army-In Opposition (SPLA-IO). Il presidente ha pubblicato la lista dei governatori, che ovviamente non ha messo tutti d’accordo, soprattutto nello Stato del Jonglei, unico Stato affidato al partito d’opposizione al governo e teatro della maggior parte degli episodi di violenza tra le diverse comunità.
“In Jonglei – precisa Stefano Antichi, Capo Missione INTERSOS Sud Sudan – INTERSOS ha una forte presenza, caratterizzata da interventi umanitari mirati di protezione dei fasce più a rischio”.
“La diffusione del COVID-19 avviene in uno scenario contorto, dove gli scontri tra le diverse comunità (Murle, Dinka e Nuer) continuano a rendere insicuro e instabile il territorio”, racconta Stefano, “Il paese sta affrontando la duplice minaccia del COVID-19 e di un aumento della violenza che rischia di far fallire sia i tentativi di riconciliazione nel fragile processo di pace, che le misure precauzionali adottate dal governo per contenere la diffusione del virus. Queste ultime però possono diventare esse stesse la causa di effetti collaterali legati alla sussistenza della popolazione. Gran parte delle famiglie, infatti, vive alla giornata, con lavori saltuari e procurandosi il cibo nell’incertezza quotidiana. Limitando la possibilità di movimento, diviene difficile anche riuscire a mangiare. Inoltre, siamo nella stagione delle piogge e le alluvioni stanno rendendo ancora più difficile la situazione del tribolato paese africano”.
Ad oggi sono 1892 i casi confermati di COVID-19 e 34 i decessi, questo nonostante il governo abbia sin da subito avviato una buona campagna di sensibilizzazione sulla pericolosità dell’epidemia (memori anche della drammatica esperienza di epidemia Ebola). Quello che manca però, in un paese come il Sud Sudan, è un efficiente sistema sanitario capace di affrontare un emergenza pandemica. C’è un numero molto limitato di ventilatori, di respiratori e pure di posti letto nell’unico centro di assistenza medica ‘attrezzato’ del paese, nella capitale Juba. Al momento i tamponi vengono effettuati solo nella capitale e questo rende incerto il reale numero di casi positivi presenti sul territorio.
“Il nostro lavoro prosegue costantemente”, afferma Stefano, “siamo presenti in Sud Sudan dal 2006, abbiamo assistito le persone più vulnerabili negli anni peggiori del conflitto interno e non sarà il COVID-19 ad interrompere le nostre attività. Abbiamo riadattato tutte le nostre attività sul territorio, dando un forte segnale ai nostri beneficiari di presenza e disponibilità”.
Attraverso campagne di sensibilizzazione e informazione, INTERSOS cerca di rendere consapevoli del rischio della pandemia le persone che vivono nelle comunità locali nelle aree di Upper Nile, Unity, Jonglei, Western, Eastern Equatoria and Central Equatoria.
“La limitazione agli spostamenti ha richiesto un adattamento dei progetti sul campo per non lasciare nulla in sospeso. Come i progetti dedicati al supporto psicosociale per chi ha subito traumi in passato o vive in condizioni di estrema fragilità. Continuiamo ad ascoltare quelle persone effettuando le attività casa per casa, porta a porta, non lasciando indietro nessuno”.
Il popolo sud sudanese sta affrontando il rischio della diffusione del COVID-19 con misurazione e distacco. Questo avviene quando si è abituati alla paura, al dover vivere perennemente in allerta, alle malattie, al contagio. “Questo è un popolo che conosce da sempre pericoli come la malaria, la febbre gialla, l’ebola. Chi ha perso un figlio a causa di altre malattie che affliggono il paese da anni, non si lascia spaventare dalla pandemia”, racconta Stefano.
La violenza che si consuma negli stati di Jonglei, Unity, Lakes, Warrap e Western Equatoria – in cui centinaia di civili sono stati uccisi, altrettante donne e bambini rapiti e oltre 60.000 persone sfollate – non può più essere ignorata mentre c’è una pandemia in circolo.
Anche le Nazioni Unite hanno lanciato un monito sulla situazione emergenziale, lo ha dichiarato lo stesso Rappresentante Speciale del Segretario Generale per le UN, David Shearer Briefing, durante il Consiglio di sicurezza sul Sud Sudan: “Sì, le persone moriranno a causa del virus, come in qualsiasi altra parte del mondo. Ma la vera minaccia per il popolo del Sud Sudan risiede nel crollo del già fragile sistema sanitario”, ha affermato. “Ciò potrebbe comportare la perdita di molte altre vite – una tragedia che può essere prevenuta.”
Prevenire una tragedia. Per il Sud Sudan il tempo è una dimensione essenziale e intervenire ora sulla messa in sicurezza delle persone e di un sistema sanitario instabile, può fare la differenza in termini di vite umane salvate.
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Cosimo Verrusio ha conseguito una laurea in Studi nordafricani e mediorientali e un master in Project Management e Cooperazione Internazionale. Ha lavorato con ONG sia all’estero che in Italia, concentrandosi su programmi di protezione e inclusione per rifugiati e richiedenti asilo. Dal 2021 è Project Manager per INTERSOS – Regione Europa, dove coordina i progetti finanziati dall’UNHCR a sostegno delle associazioni guidate dai rifugiati e delle reti di volontariato in Italia. Attualmente fa parte dell’Unità Protezione per la Regione Europa, dove si occupa di sviluppo di strumenti, formazione e progettazione.
Beatrice Sgorbissa ricopre attualmente la posizione di Coordinatrice Medica per la Missione Italia. Si è laureata in Medicina nel 2018 e si è specializzata in Igiene e Salute Pubblica nel 2025. Ha maturato esperienza nel campo della salute umanitaria, della salute dei migranti e delle popolazioni vulnerabili e della cooperazione sanitaria. Oltre alla sua esperienza sul campo in Italia (nel sud Italia con INTERSOS, nel nord Italia attraverso altre esperienze), le sue aree di competenza includono la gestione sanitaria, la prevenzione e la promozione della salute, l’epidemiologia, la ricerca applicata, lo sviluppo di strategie sanitarie e l’attuazione di progetti sanitari umanitari.
Alda Cappelletti è una professionista senior nel campo umanitario con oltre 18 anni di esperienza nella gestione di programmi, nell’accesso umanitario e nelle negoziazioni in prima linea.
Ha lavorato a lungo in situazioni di emergenza complesse in Medio Oriente, Africa e Asia, guidando operazioni umanitarie in aree ad alto rischio e difficili da raggiungere. Alda ha ricoperto posizioni di leadership presso INTERSOS, tra cui quella di Direttrice dei Programmi.
Attualmente ricopre la carica di Senior Humanitarian Advisor, è responsabile della pianificazione strategica dell’accesso e delle negoziazioni umanitarie. Ha conseguito certificazioni avanzate in negoziazione umanitaria presso il CCHN e la Harvard Humanitarian Initiative.
Dopo una laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Bologna/Polo di Forlì e un master in Conflict Studies alla London School of Economics, inizia a fare ricerca sugli stati dell’Africa sub-sahariana presso un think tank londinese.
Successivamente, nel 2017 approda a INTERSOS – prima come assistente del Direttore Generale, poi come Quality Controller e infine come MEAL Advisor.
Specializzata in valutazioni e sistemi di Information Management, si occupa di supportare la creazione e il buon funzionamento dei sistemi MEAL nazionali.
Viaggia regolarmente in tutte le missioni umanitarie dove INTERSOS opera, lavorando insieme alle unità tecniche e di programma sul miglioramento continuo delle attività e dei progetti.
Dopo una laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Bologna/Polo di Forlì e un master in Conflict Studies alla London School of Economics, inizia a fare ricerca sugli stati dell’Africa sub-sahariana presso un think tank londinese.
Successivamente, nel 2017 approda a INTERSOS – prima come assistente del Direttore Generale, poi come Quality Controller e infine come MEAL Advisor.
Specializzata in valutazioni e sistemi di Information Management, si occupa di supportare la creazione e il buon funzionamento dei sistemi MEAL nazionali.
Viaggia regolarmente in tutte le missioni umanitarie dove INTERSOS opera, lavorando insieme alle unità tecniche e di programma sul miglioramento continuo delle attività e dei progetti.
Mi chiamo Youssef e sono uno studente. Ho 20 anni e vengo da Al-Bayda, un governatorato dello Yemen. Studio medicina all’Università di Sana’a, questo per me è un privilegio in un paese come lo Yemen, dove il diritto allo studio è spesso negato. Raggiungere questo obiettivo non è stato facile, per me studiare medicina è sempre stato un sogno, ma le poche risorse economiche della mia famiglia e la scarsa offerta formativa del mio Paese, hanno reso il mio percorso più difficile. Nonostante tutto, non ho mai smesso di credere di poter fare la differenza, continuare a sognare un futuro diverso. Vorrei diventare un medico, poter curare più persone possibili che ad oggi non hanno accesso alle cure. Nella mia città natale immagino che un giorno possa esistere un ospedale dove farsi curare possa essere la normalità e non più un diritto di pochi.
Sono Dania Yousef Madi, ho 26 anni e sono Palestinese. Studio ingegneria delle telecomunicazioni.
Le telecomunicazioni sono un campo molto vasto. L’ho scelto perché mi hanno sempre divertito le tecnologie, i segnali. Come sono collegate le chiamate, a quale larghezza di banda operano le aziende, ecc. Ha una buona prospettiva per il futuro, perché, come tutti sappiamo, la tecnologia sta aumentando. E la comunicazione è qualcosa che è molto importante nella vita quotidiana. Quindi, le possibilità non finiranno mai in questo campo
I miei genitori sono divorziati e mia madre era un’insegnante che cercava di prendersi cura di quattro figli, eravamo lontani dall’essere benestanti. L’unico modo che avevo per continuare i miei studi era ottenere la borsa di studio. Questo sostegno finanziario mi ha permesso di rimodellare la mia vita per proseguire meglio i miei studi universitari. Lavoravo mentre studiavo all’università, con la borsa ho potuto ridurre le ore di lavoro e dedicare più tempo allo studio, al completamento dei miei compiti di valutazione e, soprattutto, alla preparazione degli esami. Un grande peso mi è stato tolto dalle spalle grazie alla borsa di studio DAFI. Questa borsa di studio mi ha davvero concesso una seconda possibilità per raggiungere i miei obiettivi e lavorare al massimo delle mie potenzialità
Attualmente lavoro come education officer in INTERSOS e mi sforzo di non smettere mai di imparare e sviluppare le mie capacità, iscrivendomi e frequentando alcuni corsi e conferenze. Il mio sogno è quello di aiutare gli altri a realizzare il loro sogno. Fare qualcosa di prezioso per gli altri. Più in profondità, voglio vivere libera e aiutare gli altri a vivere liberi e appagati. Inoltre, un altro dei miei sogni più grandi è continuare gli studi e fare un master, che è il percorso migliore per lo sviluppo della carriera e un futuro migliore.
Mi chiamo Abd al-Karim Tawfiq Ahmed. Ho 24 anni e sono cresciuto nel governatorato di Al Dhalea, nello Yemen settentrionale. Sono uno studente di medicina al quarto anno presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Sana’a. Ho scelto medicina perché ho un forte interesse e una passione per la scienza, guidati da un innato desiderio di fare il possibile per aiutare le persone che soffrono. E poi la professione medica è una delle più ambite al mondo, competitiva e rispettabile.
Nel corso dei miei studi ho imparato il significato delle parole impegno, perseveranza e diligenza. La borsa di studio di Fondazione Lavazza mi ha aiutato a superare molte sfide, la copertura delle tasse universitarie in primis, che è stata per me una costante fonte di preoccupazione. Inoltre, la borsa di studio è un sostegno essenziale per le spese quotidiane.
Dopo aver ricevuto la borsa di studio di Lavazza, qualcosa è cambiato nel mio approccio e ora ho una visione più positiva della vita. Ho iniziato a studiare col sorriso e mi rendo conto di quanto sono fortunato ad avere avuto questa opportunità. Mi impegno di più con i miei compagni di corso e chiedo ai docenti ogni volta che c’è qualcosa che non capisco. Fin qui studiare non è stato facile, ma continuo a impegnarmi al massimo e spero tutto vada per il meglio, devo credere che sono in grado di diventare un buon medico!
In passato scherzavo sulla possibilità di diventare medico: oggi sono uno studente di medicina al quarto anno e ho ottenuto una borsa di studio che mi permette di credere in un sogno che si sta realizzando, di lavorare sodo, di potermi vestire bene, di avere le risorse per rendermi presentabile e non mollare mai. La borsa di studio ha acceso in me un rinnovato senso di ottimismo, dopo la laurea vorrei continuare il percorso di studi e intraprendere un master.
Mi chiamo Doa’a. Sono nata in Yemen in una famiglia povera.
Il mio futuro sembrava già scritto: una vita di privazioni, di lotta per la sopravvivenza e di sogni sepolti. Ero solo una bambina e già portavo sulle spalle il peso di un contesto particolarmente complesso per le donne a cui spesso viene negata la possibilità di scegliere.
Poi, un giorno, tutto cambiò con la mia determinazione a non accettare un destino già stabilito. Decisi di studiare ed avere un futuro diverso. Con fatica e sacrifici sono riuscita ad iscrivermi alla facoltà di Odontoiatria. Poi è arrivata la borsa di studio che mi sta permettendo di continuare il mio percorso accademico e di avvicinarmi sempre di più al mio obiettivo: diventare una dentista.
Doa’a è una studentessa che rientra nel nostro progetto “Borse di studio per l’istruzione di giovani yemeniti” finanziato da Fondazione Lavazza. La storia di Doa’a è una storia di resilienza e di speranza. A quasi un decennio dall’inizio del conflitto, il nostro intervento in Yemen non ha garantito solo accesso a cure mediche e beni essenziali o protezione per le persone sopravvissute a violenza. Abbiamo sostenuto anche l’istruzione perchè crediamo che l’unico modo per superare i conflitti sia investire nella formazione delle giovani generazioni.
Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.









