La nostra casa era all’ingresso di Bosra (antica città nel sud della Siria), le forze di sicurezza dell’esercito siriano avevano piazzato i checkpoint nelle vicinanze e in ogni momento eravamo esposti al pericolo di granate o mine vaganti” ci racconta Nora, 39 anni, rifugiata siriana in Giordania. “Io vivevo sola con i miei dieci figli perché mio marito era andato a cercare lavoro in Giordania, poiché in Siria ormai non riusciva a trovare più niente. Ma ormai stare a casa nostra era troppo pericoloso: le finestre erano tutte rotte e le pareti crivellate dalle schegge dei proiettili. E cosi negli ultimi mesi avevo dovuto chiedere sempre più spesso ospitalità a parenti e amici”.
Sull’onda delle Primavere arabe che avevano già coinvolto alcuni paesi del Nord Africa, nel marzo del 2011 anche in Siria iniziano a manifestarsi tensioni e proteste organizzate contro il governo. In breve tempo ne scaturisce un conflitto violento che genera una crisi umanitaria di proporzioni immense.
“A quel punto mio marito mi aveva mandato un po’ di denaro che aveva faticosamente messo da parte, perché mi spostassi in una cittadina più tranquilla. E così con i bambini eravamo andati a Ezra e avevamo affittato una casa. Ma una donna sola è sempre un bersaglio facile per i malintezionati e presto mi ero sentita molto vulnerabile” prosegue Nora. “Così siamo tornati a Bosra, tornavamo sempre a casa, nella speranza di ritrovare un po’ di normalità ma… la nostra casa era ormai distrutta ed era stata completamente saccheggiata. I bambini avevano paura di tutto; qualsiasi rumore, qualsiasi persona incrociassimo li metteva in allarme. Erano così traumatizzati. E io ero sola e senza alcuna risorsa. L’unica prospettiva possibile era quella di raggiungere mio marito in Giordania. Non avrei mai creduto che la mia vita sarebbe potuta peggiorare ulteriormente…”
Dal 2012 ad oggi in Siria sono morte circa 600.000 persone, oltre 12 milioni di siriani sono fuggiti dalle loro case, 6.5 milioni sono gli sfollati interni e 6.6 milioni le persone che hanno abbandonato il paese per rifugiarsi principalmente nei paesi limitrofi: Turchia, Libano, Iraq e Giordania.
Solo la Giordania ospita 654.887 siriani registrati dall’UNHCR e, secondo le stime del governo, un numero equivalente di non registrati, la maggior parte dei quali risiede al di fuori dei campi profughi formali di Zaatari e Azraq.
“Ho speso gli ultimi soldi che avevo per pagare il viaggio per me e per i miei figli, stipati in un pulmino dalla Siria fino alla Giordania. Appena sistemata nel campo di Al Zaatari mi è sembrato di essere arrivata all’inferno” continua Nora. “La tenda era caldissima, sembrava che ci fosse il fuoco all’interno, tutto intorno era polvere e sabbia e i bambini avevano costantemente la tosse e i vestiti sporchi. Per andare al bagno bisognava fare la fila e non c’era nessuna privacy. Le tende erano l’una attaccata all’altra. Inoltre avevo paura di mandare le bambine da sole in giro per il campo, per cui ero costantemente in allarme se qualcuna si allontanava per giocare o per andare a mangiare negli spazi comuni. Ad un certo punto i bambini più piccoli hanno cominciato a soffrire di allergie e di problemi respiratori. Ho pregato mio marito di portarci fuori da lì in qualsiasi modo”
Le condizioni di vita dei profughi siriani scappati dalla guerra che vivono nei campi in Giordania sono durissime: sovraffollamento, scarsità di acqua, cibo, mancanza di opportunità di sostentamento. Molti lasciano i campi a causa dei numerosi ostacoli per ottenere il permesso di trasferirsi in altre aree del paese per ricongiungersi ai familiari.
Ed è così che una gran parte di loro si sposta in accampamenti informali, attratta dalla possibilità di un lavoro stagionale in agricoltura. Ma una volta fuggiti dai campi profughi o allontanatisi dai Governatorati di registrazione hanno un accesso limitato a sanità, istruzione e altri servizi essenziali. E soprattutto, senza documenti, corrono seriamente il rischio di essere ricollocati forzatamente nel campo di Azraq, il più remoto e inospitale, in mezzo al deserto o deportati in Siria.
“I più vulnerabili diventano come invisibili. Per questo in Giordania abbiamo scelto di lavorare negli insediamenti informali, non riconosciuti dalle autorità“, racconta Monica Matarazzo, Senior Protection Advisor di INTERSOS. “Dopo luglio 2014 chi è uscito dai campi riesce ad ottenere la documentazione legale, ovvero la carta dei servizi del Ministero dell’Interno (Carta MoI) e il Certificato per richiedenti asilo dell’UNHCR, con molta difficoltà”.
“Senza i due principali documenti legali, i rifugiati in Giordania non sono in grado di ottenere la documentazione civile (certificati di nascita, matrimonio o morte) e permessi di lavoro. Allo stesso tempo, i rifugiati privi di documenti hanno accesso ridotto ai servizi pubblici e all’assistenza umanitaria, si ritrovano nella spirale dell’indebitamento e sono costretti a vivere in condizioni abitative degradanti. Inoltre, si trovano di fronte a un concreto rischio di reinsediamento forzato nei campi o di deportazione in Siria” spiega Monica Matarazzo.
“Alla fine mio marito è riuscito ad affittare un appartamento di due stanze nel governatorato di Mafraq, dove siamo riusciti a sistemarci tutti e dodici” ricorda Nora. “Certo, uscivamo solo per comprare il cibo al mercato o quando dovevamo fare qualche visita medica. Ma Saleh, il nostro figlio maggiore, che aveva 16 anni ed era in piena adolescenza, non voleva saperne di condurre una vita riservata, di non allontanarsi da casa. E così una sera, mentre era con gli amici, è stato fermato dalle forze dell’ordine e portato in stazione di polizia Con suo padre abbiamo fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità. Abbiamo speso quanto avevamo per pagare un avvocato, ma non c’è stato niente da fare. È stato rispedito in Siria e ora vive per strada. Lì c’è la guerra e io non posso più proteggerlo. Mi chiama ogni tanto ma qui non può più tornare e io non so che compagnie abbia e come si procuri da vivere.”
La storia di Nora è una delle tante testimonianze di rifugiati siriani in Giordania che il fotografo italiano Alessio Cupelli e la produttrice Katia Marinelli hanno raccolto per il progetto multimediale RELOCATED IDENTITIES (relocatedidentities.nice-mccarthy.46-37-26-27.plesk.page), realizzato da INTERSOS e finanziato dal Dipartimento per la protezione civile e gli aiuti umanitari della Commissione europea (ECHO), che mira a documentare le esperienze personali di uomini, donne e bambini che lottano per salvaguardare la propria identità di esseri umani e proteggere i propri diritti e la propria libertà.
Secondo Human Rights Watch ogni mese 300 rifugiati siriani tornano in Siria in circostanze che sembrano volontarie, mentre altri 550 circa ritornano in circostanze non chiare.
INTERSOS ha verificato che nei documenti ufficiali le principali motivazioni delle misure di espulsione verso la Siria risultano essere le minacce alla sicurezza nazionale e la mancanza di documentazione civile e legale. La principale conseguenza del trasferimento forzato è la separazione familiare. I capifamiglia – compresi i minori – sono i più esposti ai controlli di polizia nei loro spostamenti o quando si recano al lavoro. Di conseguenza, chi rimane sono generalmente donne e bambini: abbandono scolastico, lavoro minorile, matrimoni precoci sono solo alcuni degli effetti negativi legati a questa condizione.
Altre ripercussioni, oltre alla difficoltà economica, riguardano aspetti legati alla sfera psicologica degli individui: sfruttamento, abuso e violenza di genere. Trovare soluzioni che possano garantire lo status legale dei rifugiati siriani in Giordania è fondamentale per promuovere una risposta duratura e sostenibile alla crisi dei rifugiati, aprendo la strada verso il ritorno ad una vita più normale per coloro che hanno lasciato il loro paese in fuga dalla guerra.
A inizio marzo il governo giordano ha annunciato l’avvio di un ampio processo di regolarizzazione dei rifugiati siriani, che riguarderà anche tutte le persone che hanno lasciato in maniera irregolare i campi profughi prima di luglio 2017.
“Per queste persone la conseguenza positiva sarà la regolarizzazione legale e la conseguente possibilità di accedere ai servizi – spiega Monica Matarazzo – Dovremo, poi, analizzare le conseguenze che questo potrebbe avere sui ritorni in Siria, anche se ancora non sussistono le condizioni per ritornare in sicurezza e dignità. Su questo fronte, occorre ancora molta cautela, ma le persone in possesso di documentazione saranno più libere e sicure di presentarsi ai posti di frontiera, con i loro familiari formalmente riconosciuti”.














