Una vita sul campo, quella di Enzo Maranghino, capo missione di INTERSOS in Grecia. Alle sue spalle c’è tanta Africa, dal 2004 al 2009, dove sempre per INTERSOS ha lavorato in  Angola, Afghanistan, Kenya, Somalia e nella regione del Darfur, in Sudan.

Da gennaio 2017 coordina i programmi di migrazione, protezione e integrazione che INTERSOS porta avanti nel nord della Grecia, al confine con Macedonia ed Albania.

Per i migranti la Grecia è diventata un luogo di passaggio, la porta d’ingresso per l’Europa. La chiusura del confine è una porta in faccia per decine di migliaia di persone. Circa 50.000 migranti sono rimasti bloccati in Grecia. La maggior parte di loro sono siriani, ma ci sono anche iracheni, afghani, yemeniti, etiopi, somali. Per tutti la destinazione è il nord Europa. La meta più ambita è la Germania, dove spesso li aspettano i loro familiari.

“Più che una crisi umanitaria è una crisi politica. Questa situazione è un’assurdità perché non c’è la volontà di risolverla. Ovviamente a farne le spese sono sempre i più vulnerabili che noi, senza farci troppe domande, assistiamo”.

Il numero di persone si sta riducendo grazie al programma europeo di reallocation, ma rimangono i cosiddetti push-back, quelli che vengono rispediti indietro dopo aver attraversato il confine, i non eleggibili di riallocazione, i richiedenti asilo in Grecia.  A queste persone Intersos offre un pacchetto di assistenza primaria e protezione, per supportarle in questo limbo, tra la perdita della vita passata e l’incertezza del futuro.

Il lavoro di INTERSOS

Intersos in GreciaIn questo contesto, INTERSOS è stata tra le prime organizzazioni ad aver attivato in Grecia progetti di protezione, e la prima ad avere sviluppato progetti di integrazione e capacity building con gli asylum seekers e le piccole organizzazioni locali, destinando a queste circa un terzo del suo budget e collaborando con loro per trovare  soluzioni più durature.

“Lavorando in un Paese europeo, che possiede già le competenze e le capacità necessarie per mettere in atto interventi strategici, abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso: portiamo saperi specialistici, il supporto psicosociale, il background dei progetti di migration che realizziamo in Italia; abbiamo sviluppato un team di mediatori culturali, che si interfacciano con tutte le possibili lingue e nazionalità, a volte selezionandoli tra i ragazzi rifugiati in questi campi”.

Uno di questi è Amjal, un rifugiato siriano di 21 anni, che conosce l’inglese e sta lavorando da diversi mesi come mediatore per INTERSOS; in questo modo può formarsi professionalmente e guadagnare qualcosa per la sua famiglia.

Il suo passato è il racconto della realtà della guerra in Siria, che gli ha portato via suo fratello e l’ha costretto a fuggire da Aleppo con il resto della sua famiglia.

Per mesi, dopo essere fuggiti dalla propria abitazione,  ogni notte camminava per quattro ore, rischiando la vita, per poter dormire nel suo letto, nella sua casa. Tutto ciò che voleva era una vita normale, per questo ha continuato ad andare a scuola, fino a quando un giorno ha trovato la maggior parte dei suoi compagni morti sotto le macerie. Alla domanda del suo insegnante, stupito, “Sei vivo?”, non ha saputo rispondere altro che “Perché dovrei essere morto? Perché succede tutto questo a me, alla mia famiglia, a noi?”

“Questo è il dramma della guerra: persone costrette a lasciare la propria casa e a non tornarci più. Come operatori umanitari, noi rischiamo spesso di farci travolgere dalla loro sofferenza. Dobbiamo tenere spento l’interruttore delle emozioni per aiutarli nel modo migliore.” – dice Enzo, ma poi aggiunge – “Anche se è sempre l’emozione che spinge a fare questo lavoro”.