Di Alessandro Mangione, operatore INTERSOS a Lesbo

 

Il concetto di emergenza è un concetto guida nella vita di un operatore umanitario, eppure spesso rimane assopito a lungo, fino a quel momento in cui succede, fino al momento in cui per cause esterne l’inaspettato accade e crea uno strappo nella tua routine giornaliera. Lo scorso 9 settembre ho appreso la notizia di quello che stava accadendo a Lesbo: Moria, il campo per rifugiati più grande e più affollato d’Europa, da giorni forzato in quarantena per la presenza di casi positivi di coronavirus, era andato in fiamme nella notte. 13.000 persone erano in strada senza riparo, mentre di Moria restava solo la cenere, la cruda e lampante testimonianza del fallimento delle politiche migratorie dell’Unione Europea.

 

Il mio primo pensiero è stato: Come è successo? Ho pensato alle persone coinvolte, quelle più vulnerabili, i bambini, le donne, le madri, gli anziani. Mi sono chiesto se fossero riusciti a mettersi in salvo dalle fiamme. Istantaneamente, però, lo shock della notizia ha iniziato a trasformarsi in un’energia diversa, un’energia volta all’azione, un bisogno di intervenire e di trovare soluzioni utili e necessarie per portare supporto alle persone. Il 10 di settembre, al mattino, io ed altri colleghi basati nella zona Nord della Grecia abbiamo ricevuto una chiamata dal nostro Country Director, ci siamo confrontati sulla situazione che le persone stavano vivendo a Lesbo e non ci è voluto molto per prendere una decisione secca: INTERSOS deve intervenire, in prima linea, com’è nella sua natura. Abbiamo raccattato le cose necessarie e in poche ore eravamo su un aereo diretto a Lesbo.

 

L’intervento in emergenza è un intervento molto adrenalinico, dove il tempo e il rischio giocano un ruolo fondamentale nel determinare il successo dell’operazione e la rilevanza dell’aiuto fornito. INTERSOS è intervenuta a Lesbo con un team specializzato di 4 persone. Oggi, a circa 7 settimane dall’inizio dell’emergenza, il team si è allargato, includendo figure che di supporto specialistico, tra cui i mediatori culturali, figure indispensabili per lavorare a stretto contatto con la comunità, e uno psicologo. 

 

I primi giorni sono stati molto caotici, un vortice di notizie, informazioni e aggiornamenti. Il nostro primo passo è stato vedere con i nostri occhi quell’emergenza, parlare con le persone, ascoltare i loro bisogni. Nelle prime ore dall’arrivo ci siamo recati a Kara Tepe, una lingua di terra che inizia con un posto di blocco della polizia locale, all’entrata Nord della città di Mitilene, e che si estende per circa 3 km a nord verso il mare e ad Est fino al villaggio di Marmaro, un bosco di alberi di ulivo dove restano le ceneri del centro di identificazione di Moria. Oltrepassato il posto di blocco della polizia, davanti a noi si è proposto uno scenario devastante. Chilometri di strada affollati dagli abitanti di Moria arrangiati in ripari di fortuna, con pezzi di legno strappati al più vicino canneto e coperte per ripararsi dal vento notturno. Avevano bisogno di acqua, di cibo, delle cose più basilari. Tanti tra gli sfollati erano già malati e non avevano modo di prendere le medicine di cui avevano bisogno, né di mettersi in contatto con il proprio medico. I bambini erano circa 4.000, molti di loro persi nella folla cercavano di ricongiungersi alla propria famiglia.

 

Abbiamo da subito deciso di concentrare il nostro intervento su un target ben definito e portare assistenza alle donne vulnerabili e ai bambini. In un primo momento abbiamo implementato una distribuzione di cibo mirata ai bambini, consegnando integratori multivitaminici e cibo ad alto contenuto proteico per garantire i bisogni nutrizionali dei bambini in strada sotto il sole. Quando poi tutte le persone sono state spostate nel nuovo campo, abbiamo fornito kit per l’igiene femminile a tutte le donne vulnerabili, donne sole, spesso madri sole, che si trovano in una condizione maggiormente precaria. Abbiamo distribuito prodotti per l’igiene personale, per sopperire alla mancanza di docce nel campo e strumenti utili per mitigare il rischio di violenza, molto alto a causa della vicinanza tra le tende e dell’assenza di illuminazione durante la notte. Giorno dopo giorno, abbiamo consolidato il rapporto con loro, ascoltandone i bisogni, le paure e le preoccupazioni, e dando un supporto concreto. Abbiamo creato un vero e proprio ponte dal campo alle altre organizzazioni che forniscono supporto medico, legale e specialistico, stabilendo un rapporto di fiducia, indispensabile per fornire un supporto concreto.

 

Quando ho risposto al telefono quel 9 di settembre ho pensato che dopo tutti questi anni di stagnazione in un posto come Moria, l’incendio dovesse essere l’ultimo tassello di quel puzzle di disumanità che l’Europa compone da troppo tempo ormai. Mentre scrivo queste parole è passato novembre, l’inverno si avvicina sempre più minaccioso e oltre 7.000 persone sono ancora lì, a Lesbo, bloccate dentro tende sovraffollate, sommerse dal fango, a guardare il mare, a immaginare un’altra Europa.

 

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