Nel 2013 Mahmoud è costretto a lasciare la Siria a causa della guerra. In Giordania incontra violenza e ma anche riscatto con il lavoro da operatore umanitario. Ora sogna di poter tornare a casa propria e lavorare alla ricostruzione di un Paese allo sbando.

 

di Guglielmo Rapino*

 

Quando è scoppiata la guerra non è partito subito. 

Lavorava come receptionist in un hotel di lusso nei pressi di Dar’a, nota località turistica a un’ora da Damasco, e l’idea di abbandonare ogni cosa per un futuro senza certezze lo spaventava. E poi c’era la famiglia. Un intreccio di legami e relazioni profonde che si allarga fino a parenti lontani e che nella cultura siriana diventa parte della stessa casa.

Quando i bombardamenti sono diventati più frequenti, le due sorelle e i genitori anziani hanno deciso di lasciare tutto e superare di notte il confine con la Giordania. Un fagotto con qualche vestito in spalla e un paio di collanine d’oro intarsiato in tasca come unici bagagli.

Lui però no, è rimasto a casa con un altro fratello più piccolo, stretti nella speranza che Allah potesse ridare pace a una terra che ne aveva perso completamente la cognizione.

Passano le settimane e l’hotel vuoto si fa rifugio durante gli attacchi aerei o le sventagliate di mortaio di qualche carro armato di passaggio.

A due anni dall’inizio della guerra in Siria, Mahmoud è costretto a guardare in faccia la realtà: la casa spoglia, le strade sventrate dalle esplosioni, il bancone della reception ricoperto di buchi di pallottole. La terra su cui ha impastato una vita intera si è fatta pesante e irriconoscibile. Quando l’aria intorno è finalmente libera dal rombo di vespa degli elicotteri, ci pensa la paura o la fame a gelare il silenzio.

Così nel 2013 decide di scappare anche lui con il fratello minore. Di notte, come il resto della famiglia, per evitare di cadere sotto il tiro dei soldati nascosti tra i sacchi di sabbia nei punti di avvistamento.

Supera la frontiera e in Giordania diventa uno delle migliaia di rifugiati siriani radunati nei campi del confine, il tesserino dell’UNHCR in tasca per avere almeno un pasto garantito di giorno e un materasso incerato a terra in una tenda con altri otto uomini per riposare la notte.

La mamma e il resto della famiglia è a Karak, nel sud del Paese, ospite di un lontano parente. Nel Medio Oriente è così, nella buona e nella cattiva sorte i legami di famiglia diventano rifugio e il salotto si trasforma in camera da letto per chiunque ne abbia bisogno. Anche Mahmoud e il fratello vanno a Karak: le quattro mura della camera condivise con il resto della famiglia, i pasti di riso bianco con una patata bollita come condimento per lasciare che i risparmi bastino almeno fino a quando qualcuno in casa riuscirà a trovare un lavoro decente.

Purtroppo il lavoro non arriva.

Nonostante l’accoglienza iniziale del popolo giordano, la legge non permette ai rifugiati di svolgere tante mansioni aperte alla popolazione locale. Dove non è la legge, ci pensa il tacito stigma delle tribù del sud, le quali di fronte al pericolo di vedere il mercato del lavoro saturare per la crescita di domanda, preferiscono chiudere le porte ai tanti giovani di valore provenienti dallo Stato confinante.

Seguono mesi di sconforto ed espedienti, tra lavoretti da commesso in un negozio di libri per universitari e aiutante artigiano nel mercato vicino casa.

Dopo qualche tempo INTERSOS apre il suo progetto a Karak e cerca professionisti per le attività con le comunità siriane e per la gestione delle campagne di sensibilizzazione. Nonostante la poca esperienza, Mahmoud decide di fare domanda. La parlantina allenata negli anni da receptionist e l’arte dell’arrangiarsi raffinata negli ultimi mesi gli permettono di superare i colloqui e ottenere la posizione.

Da siriano, si ritrova a visitare centri comunitari, scuole, piazze e mercati dove i propri connazionali si incontrano. In questi luoghi organizza sessioni di sensibilizzazione sulla parità di genere, sulla lotta al lavoro minorile, sugli strumenti sociali a disposizione dei rifugiati per garantire il sostentamento alle proprie famiglie.

È bravo, parla con lo stesso accento delle donne e adolescenti a cui si rivolge, alcune lo conoscono e si fidano di lui.

L’anno successivo viene promosso ad assistente sociale, dopo un paio di anni è responsabile di tutto il team dedicato alla protezione dei rifugiati a Karak. Oggi, a dieci anni dal suo arrivo in Giordania, Mahmoud è coordinatore di progetto con INTERSOS per l’intera regione meridionale del Paese.

In tasca ha ancora la tessera dell’UNHCR che dichiara il suo status di rifugiato ma, intorno, al posto della tenda, il tepore quotidiano di una casa in affitto con la madre e le sorelle.

Da quando è caduto il regime di Assad, dopo anni di buio e incertezze, intravede un barlume di speranza e la possibilità di ritornare nella sua terra dannata e benedetta. Nonostante la speranza appena accesa, però, sa bene quanto la situazione sia complessa in questo momento. Mentre tutto il mondo intorno grida alla conquista della libertà, lui aspetta con tacita pazienza che la situazione si chiarisca, covando nel cuore il sogno proibito di tornare ad abbracciare vicini e famiglia allargata rimasti al di là del confine.

Ecco, nella storia di Mahmoud, nella sua felicità composta e complessa, nel suo riscatto da un destino imposto, c’è il racconto di centinaia di migliaia di persone costrette ad abbandonare una casa amata visceralmente per arrangiare il futuro dove possibile.

Il suo futuro lo ha portato ad essere punto di riferimento e sostegno per la sua gente. E oggi forse gli darà la felicità di tornare ad essere figlio della propria terra. Quello di tanti altri siriani come lui è rimasto invece imbrigliato tra i silenzi di qualche frontiera o nel freddo bagnato di una notte tra le onde del Mediterraneo.

 

*Guglielmo Rapino è Coordinatore dei programmi di INTERSOS in Giordania dal 2024