Afghanistan, le tante crisi che compongono il disastro umanitario
Negli ultimi anni l’Afghanistan sta affrontando un periodo di crescenti difficoltà, in cui più crisi si stanno accumulando l’una sull’altra, creando un complesso intreccio di problemi umanitari e sociali.
Il Paese, già allo stremo a causa di decenni di guerra e poi, dal 2021, con il ritorno al potere dei Talebani, messo in ginocchio dall’isolamento internazionale, dal drastico taglio dei fondi allo sviluppo e dalle sanzioni, nonché dalla riduzione dello spazio dei diritti civili soprattutto a danno delle donne, si sta trovando ad affrontare negli ultimi mesi un susseguirsi di emergenze che si vanno a sommare giorno dopo giorno.
Tra queste, ci sono i ritorni forzati dei rifugiati afgani dal Pakistan e dall’Iran. Espulsioni di massa che hanno riversato migliaia di persone ai confini in condizioni di estrema vulnerabilità, spesso dopo aver subìto violenze e la confisca dei beni; famiglie intere, con bambini piccoli e anziani al seguito, che si ritrovano improvvisamente a dover ricominciare tutto in un Paese dove non hanno più nulla, che spesso nemmeno conoscono, e dove sarà difficilissimo ricostruirsi una vita dignitosa.
L’Afghanistan non è preparato a gestire questi ritorni: in totale, da gennaio 2025 ad oggi, si stima che siano tornati 2.550.000 afgani, di questi quasi 2.000.000 dall’Iran e oltre 530.000 dal Pakistan.
INTERSOS, come altre organizzazioni umanitarie internazionali, è intervenuta per far fronte a queste ondate di rimpatri. Tuttavia, le gravi carenze di finanziamenti, soprattutto dopo il taglio dei fondi americani all’inizio di quest’anno e la riduzione dei fondi provenienti da altri donatori, hanno reso difficile rispondere a questa e ad altre emergenze.
Come se la crisi legata ai rimpatri non fosse già abbastanza, una serie di devastanti terremoti ha colpito alcune settimane fa diverse province del nord-est del Paese, con la provincia di Kunar che ha subito il colpo più duro. Le prime stime indicano oltre 2.200 vite perse e più di 3.600 feriti, con interi villaggi ridotti in macerie e molte comunità rimaste isolate a causa di frane e strade bloccate. Un evento non raro in Afghanistan dove i cambiamenti climatici, espongono costantemente il territorio a rischio di eventi naturali estremi e shock, come terremoti, inondazioni, siccità ed eventi meteorologici estremi. La stagione invernale, inoltre, come ogni anno, non farà altro che peggiorare la situazione spingendo le popolazioni al limite delle proprie capacità di sopravvivenza.

Effetti delle crisi: 23 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere
L’Afghanistan affronta ormai da decenni una grave e persistente crisi umanitaria.
La chiave per capire la complessità della crisi umanitaria in Afghanistan è comprendere come i bisogni nel paese tocchino praticamente tutti i settori di intervento a livello umanitario. Dall’accesso all’acqua alla sicurezza alimentare, dalla salute all’educazione, dalla necessità di rifugio fino ad arrivare alla protezione delle persone vulnerabili. Concretamente, sono 23,7 milioni -secondo i dati delle Nazioni Unite– le persone che per sopravvivere necessitano di assistenza umanitaria, si tratta di circa la metà della popolazione.
Di queste – secondo la classificazione IPC – Integrated Food Security Phase Classification, che delinea l’insicurezza alimentare in cinque fasi distinte (minima/nessuna, stressata, crisi, emergenza, catastrofe/fame) – si stima che entro ottobre 2025 saranno circa 9,5 milioni le persone (il 21% della popolazione totale di 46 milioni) che dovranno affrontare elevati livelli di insicurezza alimentare acuta (fase 3, di crisi o superiore). Di fatto, la malnutrizione è tra i principali problemi che il nostro staff medico sul campo si trova ogni giorno ad affrontare e che rimane tra le principali cause di morte tra i bambini sotto i 5 anni.
Tra i bisogni più urgenti legati alla salute ci sono anche la necessità di cure primarie, immunizzazione, medicine e supporto per i problemi legati alla salute mentale. Allo stesso tempo, la mancanza di personale sanitario, la scarsità di fondi e le restrizioni imposte dalle autorità rendono estremamente limitata la capacità delle organizzazioni umanitarie di raggiungere le persone che hanno bisogno.
Isolamento, assenza di servizi, malnutrizione: la situazione nelle aree remote
Il 70% della popolazione dell’Afghanistan vive nelle aree remote del Paese, in villaggi molto lontani dai centri urbani e spesso estremamente isolati a causa di scarse infrastrutture e della mancanza di strade asfaltate.
È qui che si concentra la maggior parte delle attività di INTERSOS: le nostre operatrici e i nostri operatori sanitari forniscono assistenza medica di base, screening nutrizionali e supporto psico-sociale in contesti dove, se non ci fossimo, le comunità non avrebbero accesso ad alcun servizio nel raggio di molte decine di chilometri. Le nostre cliniche sono nelle aree più remote della provincia di Kabul e Kandahar e nelle aree remote montuose del Sud del Paese, come la provincia di Uruzgan, dove, partendo dal principale centro urbano, ci vogliono ore di macchina su strade sterrate per raggiungere i villaggi.
In Uruzgan, così come avviene nelle altre aree remote e rurali, le opportunità di lavoro sono pochissime e la maggior parte delle famiglie non riesce a generare un reddito sufficiente per coprire i bisogni di base. Moltissime fanno fatica a mettere insieme un pasto al giorno. Molte di queste comunità dipendono quasi esclusivamente dall’agricoltura di sussistenza. Ma la terra non sempre dà quello che serve per sopravvivere: basta un periodo di siccità o un’alluvione per mettere a rischio interi raccolti oppure una malattia del bestiame per sconvolgere la sopravvivenza stessa delle famiglie.
Questi sono eventi sempre più comuni in Afghanistan: i disastri naturali colpiscono centinaia di migliaia di persone e ne spingono altrettante a spostarsi altrove. Nel 2024, tutte le 34 province del paese sono state colpite da almeno uno di questi eventi: terremoti, alluvioni, siccità, forti nevicate, frane e valanghe.

Oltre alla scarsità di cibo, le famiglie devono fare i conti con la quasi totale assenza di servizi di base. In molte zone – le cosiddette “white areas” – non ci sono servizi sanitari, acqua potabile e servizi igienici adeguati. Questo aumenta il rischio di malattie e malnutrizione, in particolare tra i bambini, che rappresentano la metà della popolazione, e le donne incinte e in allattamento.
E sono proprio queste le persone che assistiamo ogni giorno nelle nostre strutture sanitarie. Si tratta di persone con risorse estremamente limitate che vivono in aree remote, spesso tra le montagne. Bambini, soprattutto sotto i 5 anni di età, e donne incinte malnutriti; donne con gravidanze a rischio; bambini disidratati a causa di dissenteria acuta; bambini affetti da malattie infettive comuni tipo morbillo oppure affetti da malattie stagionali come dengue, febbre emorragica Congo-Crimea o da poliomielite. Ad oggi, l’Afghanistan è l’unico Paese al mondo insieme al Pakistan dove ancora si registrano casi di poliomielite, specialmente nei bambini, e questo è un fattore preoccupante considerando che la malattia è prevenibile con un semplice vaccino. Sono molte le persone, inoltre, che arrivano da noi con bisogni legati alla salute mentale, che soffrono di ansia, depressione, traumi e stress cronico e hanno bisogno di percorsi di supporto psicosociale specifici.
Questi problemi sono ancora più accentuati per gruppi di donne già marginalizzate, come rifugiate, sfollate, migranti e lavoratrici del sesso, che affrontano difficoltà aggiuntive nell’accesso a cure adeguate, protezione e supporto.
Un migliore accesso ai servizi sanitari per i bambini può ridurre significativamente la mortalità e morbilità infantile, prevenendo e trattando malattie come polmonite, diarrea, malaria e complicazioni legate al parto, che sono le principali cause di morte infantile. Grazie a cure neonatali adeguate, vaccinazioni, una nutrizione corretta, pratiche igieniche appropriate e un accesso tempestivo ai farmaci pediatrici, è possibile migliorare significativamente la salute dei bambini.

Taglio dei fondi statunitensi: il rapido peggioramento della situazione umanitaria
Gli Stati Uniti erano, sin dal 2013, il donatore più importante in Afghanistan e nel 2024 avevano finanziato il 47% del totale dei fondi richiesti nell’appello lanciato ogni anno dalle Nazioni Unite per rispondere ai bisogni umanitari del paese. L’effetto dei tagli voluti dal Governo americano quest’anno è stato quindi devastante.
Parlando del settore sanitario, da febbraio 2025, in tutto il paese sono state chiuse 422 cliniche, con un impatto devastante su oltre 3 milioni di persone che hanno perso la possibilità di accedere alle cure mediche di base. Sono inoltre 305 i centri per la cura della malnutrizione che sono rimasti chiusi dopo i tagli (102 tra questi poi, fortunatamente, hanno riaperto grazie all’intervento di altri donatori). Il World Food Programme in Afghanistan – un paese con 3,5 milioni di bambini che soffrono di malnutrizione acuta – ha dovuto ridurre il suo programma del 60%, lasciando 1.2 milioni di bambini senza trattamenti. Per la seconda metà dell’anno ci si aspetta un gap di oltre 145 milioni di dollari, necessari a rispondere ai bisogni alimentari e l’impatto di ciò si abbatterà maggiormente sulla popolazione nella stagione invernale, la più difficile da affrontare.
Inoltre, sono state interrotte le attività di 218 strutture che si occupavano di prevenzione e risposta alla violenza di genere, lasciando oltre 1 milione di persone, soprattutto donne e ragazze vulnerabili, senza il supporto di cui necessitano.
INTERSOS in Afghanistan è stata costretta a interrompere le attività in 8 strutture che si occupavano di salute, nutrizione, assistenza psicosociale e attività generatrici di reddito per persone vulnerabili. Sono state più di 123mila le persone rimaste senza assistenza. Per fortuna, per 5 di queste cliniche – 4 a Kandahar e una a Kabul – siamo riusciti a mobilitare risorse da altri donatori che ci hanno permesso di garantire la ripresa dei servizi.
Appello alla comunità internazionale: l’Afghanistan non va lasciato solo
Non sono però solo i drastici tagli voluti di recente dall’amministrazione americana ad essere il problema. Anche altri Paesi hanno progressivamente ridotto da tempo i finanziamenti per l’Afghanistan trincerandosi dietro il non voler riconoscere alcuna autorità al suo attuale Governo de facto e evitare qualsiasi tipo di finanziamento che possa rinforzarlo.
L’isolamento e la riduzione dell’assistenza, oltre a ridurre le attività delle organizzazioni umanitarie e a limitare gli aiuti per la popolazione, alimentano però anche il rischio che le fasce più vulnerabili della popolazione ricorrano ancora di più a strategie di sopravvivenza dannose, come la vendita di beni essenziali, lavoro minorile, matrimoni precoci, che sono proprio quelle pratiche che per anni si è cercato di prevenire e ridurre. Se questa tendenza dovesse continuare, gli impatti umanitari e sociali sarebbero drammatici e rischierebbero di annullare i fragili progressi ottenuti finora.
Il crescente disimpegno della comunità internazionale rispetto al supporto umanitario -in Afghanistan come altrove- è un segnale allarmante. Se questa tendenza globale dovesse consolidarsi, il rischio è quello di trovarsi di fronte a crisi sempre più profonde, dimenticate e senza risposta.
Noi restiamo in Afghanistan per continuare ad assistere la popolazione e chiediamo alla comunità internazionale di non voltare le spalle al Paese.

L’Unione Europea finanzia attualmente 11 delle nostre strutture sanitarie in Afghanistan: si tratta di cliniche situate nel Sud del Paese, in aree remote della provincia di Uruzgan e di Kandahar dove ci sono villaggi difficili da raggiungere, spesso nascosti tra le montagne, dove mancano anche i servizi di base. Le nostre attività in queste strutture sanitarie si concentrano sulla malnutrizione, sulla salute materno-infantile, sulle vaccinazioni e anche sulla protezione umanitaria e sulla salute mentale quindi con attività di assistenza psicologica e psicosociale soprattutto rivolte a donne e bambini che vivono in comunità particolarmente vulnerabili.
L’Unione Europea finanzia inoltre i nostri interventi in risposta alla crisi dei rimpatriati dall’Iran: lavoriamo negli insediamenti informali (cosiddetti servizi post arrival) dove i rimpatriati dall’Iran arrivano dopo essere passati dai centri di transito nelle aree di Herat e Nimroz. Qui, dove al momento c’è il gap maggiore in termini di assistenza, stiamo fornendo, dalla fine di agosto, supporto sanitario, con attività legate alla nutrizione, alla salute materno-infantile, alla salute mentale e alla protezione umanitaria.
Sono finanziate dall’Unione Europea anche le attività che svolgiamo nel centro di transito di Kandahar dove assistiamo gli afgani che rientrano dal Pakistan.




