Il lago c’è, fragilissima riserva d’acqua e vita nel cuore del Sahel. Avvicinarsi alle sue sponde, però, è un altro conto. Perché il Lago Ciad è sempre più piccolo, vittima del cambiamento climatico e della desertificazione, che ne ha ridotto la superficie del 90% dal 1960 ad oggi. E perché è sempre più insicuro, nel cuore della crisi umanitaria determinata dal conflitto con il gruppo armato Boko Haram.

 

 

INTERSOS è oggi l’unica organizzazione umanitaria a portare aiuto tra le isole di cui è disseminata la sponda settentrionale del lago, in territorio ciadiano. Siamo nelle terre vicine alla cittadina di Bol. Se la cercate su Google Maps non troverete splendide vedute lacustri, ma immagini di desolazione. È la storia di questi anni, una lunga storia di violenza e insicurezza che ha portato la popolazione allo stremo.

 

Nella Regione del Lago, la fuga è ormai condizione ordinaria di vita. E di sopravvivenza. Più della metà della popolazione, il 61% delle persone, ha abbandonato la propria casa ed è sfollato. Di questi, il 60% sono minori. Molti di questi sfollati hanno vissuto l’esperienza della fuga più di una volta. Sfollamenti ripetuti in cerca di un rifugio sicuro, o, se non altro, meno insicuro del precedente.

 

Per 110mila persone disseminate nella rete di isole, canali e specchi d’acqua che costituisce la riva del lago, qui dove Boko Haram muove i suoi uomini e organizza i suoi attacchi, INTERSOS rappresenta l’accesso ad un’assistenza vitale. Un supporto fatto di fornitura di acqua pulita e servizi igienici, distribuzione di sementi e altri beni di prima necessità, aiuti alla pesca nel rispetto dell’ambiente: Interventi a supporto di una resilienza estrema.

 

Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi? “Il rischio di un ulteriore peggioramento della  situazione  umanitaria – sottolinea il capo missione di INTERSOS Papy Kabwe –  La crisi del Lago Ciad è oggi la somma di tre fattori di crisi strettamente interdipendenti tra loro: una crisi di sicurezza, con oltre 300 mila sfollati, violenze, scontri armati, e conseguenti elevati bisogni di protezione; una crisi ambientale, nella quale le inondazioni stagionali fanno da estremo contraltare alla crescente desertificazione, alimentando l’insicurezza alimentare; una crisi sanitaria, fondata sul limitato accesso ai servizi medici fondamentali. Nessuno di questi tre fattori sembra destinato a un miglioramento”.

 

Anzi. Il COVID-19 ha reso ancor difficile la vita della popolazione, non solo per l’ulteriore pressione sul fragile e inadeguato sistema sanitario, con un aumento dell’87% di persone bisognose di assistenza (da 950mila a 1,8 milioni secondo le stime delle Nazioni Unite), ma allo stesso tempo, in un paese arido e privo di bocco sul mare, anche per la chiusura delle frontiere e le conseguenti limitazioni all’approvvigionamento di cibo e altri beni essenziali. Tra il 2020 e i primi mesi del 2021, la situazione è resa ancor più pesante dal lascito delle straordinarie inondazioni della scorsa estate: villaggi distrutti, raccolti e bestiame abbandonati.

 

La durata della crisi, insieme all’ormai cronica carenza di fondi a sostegno degli interventi umanitari, acuisce il peso dei bisogni. Per cinque anni, dal 2015 al 2020, i finanziamenti si sono fermati a meno del 50% delle necessità individuate. E la situazione non migliorerà certo nel 2021. Le infrastrutture civili continuano a deteriorarsi: mancano strutture mediche ed educative. Mancano beni di prima necessità. 19mila persone muoiono ogni anno in Ciad per l’impossibilità di accedere all’acqua pulita e all’igiene, con il conseguente di diffondersi di malattie. Nelle isole, alcune di queste carenze sono ancor più evidenti. “La popolazione soffre in particolare l’assenza di supporto educativo, medico e nutrizionale – sottolinea ancora Papy Kabwe – ma la nostra presenza rappresenta un presidio, garantito attraverso la comunicazione costante con le comunità e i loro leader”.

Il lago c’è, nonostante tutto. Con la sua acqua resiste da migliaia di anni al deserto, oggi più che mai, insieme alla sua gente, deve resistere alla distruzione portata dall’uomo.

 

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