Raccontare immagini. Immagini di un ritorno dopo un lungo esodo. Immagini che hai visto di persona o quelle che sei riuscito a fermare con uno scatto. O anche quelle che ti arrivano distrattamente dalla rete. E’ sempre difficile, forse impossibile. Tanto più, se giungono da lontano. Dalla Somalia. Quel paese di nemmeno quindici milioni di abitanti ma con due milioni e seicentomila persone che sono dovute fuggire dalle loro case. Per i tanti, interminabili conflitti che dilaniano quel pezzo d’Africa.
Immagini, allora. Ancora più difficili da raccontare se parlano di ritorni. Di tentativo di ritorni a casa. Una, fra le più significative, potrebbe essere quella di Yerooy Hasan Ibrahim. Si potrebbe cogliere l’attimo in cui parla e racconta dei suoi otto figli, che ora vanno tutti a scuola. Chi alla primaria, chi alla secondaria. Due anni dopo aver accettato di tornare a Baidoa, sì proprio la città a duecento chilometri da Mogadiscio, che ha riempito le cronache delle guerre. Lei parla ma forse l’immagine da fissare è piuttosto lo scaffale in legno, che le fa da sfondo. Gli scaffali in legno, pieno di prodotti alimentari. Perché Yerooy Hasan parla, gesticola, si commuove mentre è nel suo piccolo negozio. A poche centinaia di metri dalla sua nuova casa, in un complesso di duecento nuove abitazioni.
Tutte costruite col sostegno dell’UNHCR e di Intersos, che da quasi cinque anni sono partner in progetti per il rientro dei profughi. Yerooy Hasan con una piccola somma, ricevuta oltre alla casa, ha comprato un pezzetto di terra. E una piccola struttura dove esercita un commercio al dettaglio. Vende quello che produce lei e vende quello che trasformano altre donne, che provano a ricominciare dopo anni passati nei campi profughi. Tante altre donne, tanti altri uomini, tanti altri bambini. Sì, perché solo a Baidoa sono 371 le strutture per i rifugiati che ospitano quarantaduemila persone. Duecento chilometri più ad Ovest, a Dinsor, ce ne sono altre 15 mila, ospitate in strutture allestite d’intesa con le autorità locali.
Non basta la foto del negozio di Baidoa? E allora, un’altra immagine “virtuale”. Da raccontare con le parole. E’ quella di un lettino. Che ad un occhio inesperto potrebbe sembrare quelli che si usano negli studi dei dentisti. E’ simile ma non uguale. E’ circondato da attrezzature che una donna saprebbe cogliere subito meglio: sono lettini per l’assistenza ostetrica. Sono lettini per la cura delle donne pre e post parto nell’ospedale a Wadajiv. Le cui strutture e le attrezzature sono state fornite – anche queste – dall’UNHCR e da Intersos. Assistono le donne che non sanno dove altro partorire.
Si potrebbe continuare e raccontare l’immagine dei bambini che alzano la mano come a rispondere ad una domanda degli insegnanti. Una domanda formulata con dei gesti manuali, però. Perché si parla della scuola per bambini non vedenti e non udenti, la Model School, l’unica di questo tipo in un’area vastissima. Una scuola che cresce e dai 50 bambini con cui ha iniziato già oggi ne conta 112. Una scuola che supplisce alla carenza di tutto ma che non vuole sostituirsi al resto. Tant’è che la direttrice, Habiba Ibrahim, quando racconta le sue esperienze non smette mai di chiedere che sia l’autorità amministrativa a farsi promotrice di nuove scuole, di nuovi trasporti per i bambini. Quei bambini, dunque. O quelle ragazze – alcune di loro tornate dopo una fuga con la famiglia in Kenia – di una scuola superiore, dove l’agenzia dell’Onu e Intersos hanno portato l’acqua. Che per loro – te lo dicono – è tanto, tantissimo.
Immagini forti, vere. Niente affatto stereotipate. Eppure, se si vuole un’immagine simbolo dell’intervento in Somalia, bisogna scavare ancora. E fermarsi su un’istantanea, lontana, lontanissima da quelle che in genere si usano per suscitare emozioni in chi legge o guarda. E’ la fotografia di un’assemblea. Esattamente a Baidoa, in un piazzale delimitato da un albero gigantesco. Sotto, sotto quell’ombra, un responsabile dell’UNHCR e un altro di Intersos parlano. Parlano con le famiglie, con chi – si presume – sia una sorta di capo-villaggio, con le rappresentanze di questi uomini, di queste donne. Parlano, si confrontano. Controlli? Sì, anche quelli. Nel senso che si discute di come sono stati spesi i soldi, di come continuare i progetti. Di come ampliarli. E a parlare sono soprattutto loro, i rifugiati. Meglio: gli ex rifugiati che stanno ricominciando a vivere.
L’immagine di un’assemblea di sicuro non fa audience. Ma più di mille parole racconta come intervengono le organizzazioni umanitarie.