Una ragazza, avrà circa vent’anni, fissa il paesaggio davanti a sé, seduta su una sedia di plastica davanti la sua casa, una delle ventisette masserie occupate che compongono Borgo Tre Titoli.
È la prima immagine che mi colpisce, mi trasmette tutta la solitudine di quel luogo e della gente che ci vive.
C’è un tramonto bellissimo quando arriviamo, sembra una normale serata estiva, con gli uomini rientrati dal lavoro, che scambiano due chiacchiere davanti ad un bar, in un’atmosfera apparentemente serena.

Ma qui di normale non c’è nulla. Siamo in uno dei tanti insediamenti bracciantili in cui vivono nella quasi invisibilità uomini e donne, che di giorno raccolgono frutta e verdura nei campi, e nel resto delle ore vivono senza diritti, in condizioni disumane.

È lunga la fila davanti la nostra clinica mobile. Tanti uomini e un paio di donne che attendono il loro turno per essere visitati o si avvicinano anche solo per un consiglio.
I nostri operatori, un medico e due mediatori, si spostano dal mattino nei vari insediamenti, distanti anche molti chilometri tra loro, per curare chi vive qui. Ma non si fermano, continuano il loro lavoro, fino all’ultimo paziente che si è aggiunto alla fila.
INTERSOS da giugno è in provincia di Foggia per fornire cure mediche e orientamento ai servizi socio-sanitari ai braccianti che vivono a Tre Titoli, a Rignano Scalo, a Borgo Mezzanone e in altri insediamenti nella zona.  Dall’inizio del progetto sono state effettuate circa 200 visite. La maggior parte dei pazienti sono uomini, le donne solo il 12%.
Artrosi, tendiniti, malattie esantematiche e gastroenteriche sono le patologie più diffuse tra i braccianti, a causa delle tante ore passate sotto il sole, piegati a raccogliere frutta e verdura, e a causa delle drammatiche condizioni igienico-sanitarie dei luoghi in cui vivono.
“Ad ogni paziente”, mi spiega Alessandro Verona, il Coordinatore Medico del Progetto che mi accompagna in questa visita, “si dedica il maggior tempo possibile, perché l’obiettivo di INTERSOS non è solo curare ognuna delle persone che si avvicinano alla nostra clinica mobile, ma anche informare i pazienti dei loro diritti”. Anche per questo non si lavora da soli, ma si collabora con gli attori locali, per tentare di creare un sistema che migliori le condizioni di vita di uomini e donne che possiamo definire senza mezzi termini gli schiavi del nostro tempo.
Il giorno successivo visitiamo Rignano, il posto che chiamano Ghetto, dove le condizioni di vita sono ancora più drammatiche: c’è un odore forte, cumuli di spazzatura bruciata, container e baracche di lamiera senza acqua né corrente.
La nostra equipe visita un ragazzo, magrissimo, con una spalla lussata e un uomo con la schiena bloccata. Vedo chiaramente quanto sia doloroso lavorare nei campi sotto quel sole che ci brucia la pelle.
L’ultima tappa della mia visita è Borgo Mezzanone. Anche qui lamiere e container, a formare un piccolo paese dove prima sorgeva un aeroporto militare. Anche qui, la vita continua normalmente, nell’indifferenza di chi vive pochi chilometri più in là.
Un ragazzo ci chiama da lontano, ci racconta che ha il diabete e che non prende l’insulina da giorni perché finita. Ha un piede con un dito amputato e un altro in pessime condizioni. Ci sediamo con lui su un materasso, in una specie di cortile tra due container. Alessandro lo visita, ma soprattutto gli spiega come avere un medico che lo segua, lo curi e gli fornisca l’insulina di cui ha bisogno per vivere.
Mentre andiamo via un altro ragazzo si avvicina alla nostra macchina, vuole sapere come fare con i suoi documenti. Gli spieghiamo che INTERSOS si occupa di salute e che deve rivolgersi all’associazione di avvocati che trova in stazione, gli indichiamo i giorni e gli orari. Ma lui continua a parlare, a chieder consigli, dopo tanto ci ringrazia e si allontana.
È presto per sapere come andrà questo progetto, ma credo che un obiettivo lo stia già raggiungendo: le persone si avvicinano, fanno domande, si informano, in nessuno ho percepito diffidenza. Ed è proprio questo che INTERSOS vuole fare, rendere consapevoli questi uomini e queste donne che hanno dei diritti: ad essere curati quando stanno male, ad avere i documenti, a svolgere un lavoro umano, a costruirsi una vita dignitosa.
Chiedo ad Alessandro in cosa siamo diversi da chi ci ha preceduti, cosa possiamo fare di più. “Anche se dovessimo fallire”, mi risponde, “almeno avremo provato a lasciare un segno in queste persone.”